[ Morellini, Bologna 2018 ]
Il saggio di Donata Meneghelli parte da una considerazione che suona quasi come un luogo comune, ma che è in realtà una premessa poco esplorata da una tradizione concettuale che mette la singola opera al centro di tutto: vale a dire l’idea che «qualunque testo singolare può potenzialmente essere riattivato in un circuito che lo dilata e/o lo moltiplica» (p. 11).
Dal punto di vista dell’impostazione teorica generale, questo studio si colloca all’incrocio tra il lavoro analitico svolto dalla narratologia sulla definizione e il valore delle soglie testuali e l’indagine sui meccanismi di significazione legati al piacere del testo e al lutto della fine, rappresentata tipicamente da Reading for the Plot di Peter Brooks. Il suo punto di interesse principale tuttavia si trova molto al di là di questi riferimenti di partenza. Sequel, retake, aggiunte, prequel, what-if, spin-off, reboot e simili sono soltanto alcuni dei molti termini che l’area degli studi letterari ha iniziato a maneggiare negli ultimi decenni grazie alla graduale promozione estetica di alcuni prodotti audiovisivi e più in generale all’affermazione del concetto di «cultura convergente», proposto da Henry Jenkins per sintetizzare la dominante di un’epoca in cui i contenuti delle storie vivono di continui riversamenti e trasposizioni intermediali. Nel suo lavoro, Donata Meneghelli fa però qualcosa di insolito e interessante: Senza fine capovolge una mossa critica largamente diffusa, quella che tende a usare la teoria letteraria per giustificare e spiegare le narrazioni audiovisive, pescando soprattutto dagli studi sul romanzo idee e nomi per parlare di cinema e serie tv, e sceglie il gesto opposto di portare la terminologia (e i suoi impliciti concettuali) tipicamente riservata a questi prodotti sul campo dello “scritto-scritto”, della letteratura intesa in senso stretto. Romanzi e fanfiction sono i generi presi in considerazione; Henry James, Charlotte Brontë e Jane Austen gli autori scelti come terreno di esplorazione delle conseguenze della proliferazione testuale, e non a caso: non semplicemente autori di opere che sono state oggetto di varie forme di «espansione», come ce ne sarebbero tanti, ma pilastri del canone letterario occidentale, auctores come auctoritates, capaci di rendere con la massima evidenza la dinamica che porta lo Scrittore, sacerdote dell’Opera Originale, a essere riconfigurato come mera sorgente di un testo che non è più rilevante solo in sé ma anche per l’altro che genera.
Donata Meneghelli non si limita a sistematizzare efficacemente una varietà di formati spesso inclusi in tassonomie instabili o concorrenti (qui riportati a tre categorie, prequel, sequel e paraquel), ma esplora capillarmente i molteplici effetti di rifrazione con cui i testi “derivati” arricchiscono e soprattutto riscrivono la sfera di significato del loro testo di partenza: scoprendone un passato che le dà nuove motivazioni, raccontandone il futuro, riempiendone le ellissi e percorrendone tutte le declinazioni alternative pensabili, fino al limite dell’irriconoscibilità.
Forse però la dimensione in cui questo saggio risulta in assoluto più stimolante è quella delle implicazioni che si muovono sullo sfondo delle analisi presentate, alle spalle del discorso sulla complessiva democratizzazione della letteratura (come accesso, condivisione, e produzione). Guardare alle opere dal punto di vista dei mondi narrativi che le oltrepassano è un modo per mettere radicalmente in discussione alcuni tra i confini stessi della nostra concezione di “letteratura”: quali sono i limiti di un testo? Dove e quando si può dire che una storia è finita? Dov’è la linea che separa un singolo testo, un’esecuzione autoriale (di autore professionista o di fan), dall’universo narrativo che contiene e che lo eccede? E soprattutto, un po’ come nel paradosso della nave di Teseo, l’interrogativo che in fondo percorre ogni tradizione in quanto tale: fin dove e fin quando una storia che si racconta di nuovo è ancora la stessa storia?
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